Il danno da premorienza

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Il danno da premorienza

Avv. Alessandro Lacchini 

Se le tabelle milanesi sulla liquidazione del danno biologico rappresentano una pietra miliare nella storia del risarcimento del danno alla persona, al contrario ciò che è stato elaborato dall’Osservatorio nel 2018 in materia di premorienza ha destato notevoli perplessità.

Il fatto che i criteri meneghini abbiano effettivamente trovato ampia applicazione presso le corti di merito, probabilmente fin troppo sensibili al “fascino della tabella” ai fini liquidativi, non ha placato le polemiche, anzi ha contribuito ad alimentarle.

Danno intermittente, danno da premorienza e danno biologico terminale

Iniziamo precisando che con le pittoresche definizioni di “danno intermittente”, “ danno da premorienza” e “ danno biologico terminale” si è voluta descrivere in modo diverso una fattispecie che -di fatto-  è identica (creando ulteriore disordine in un ambito già di per sé complesso), ovvero:  quella del decesso avvenuto successivamente all’evento danno, ma prima del risarcimento delle conseguenze della lesione.

Si è anche voluto distinguere, per motivazioni anch’esse non del tutto comprensibili, il caso in cui  la morte sia causalmente connessa all’evento originario, da quello della morte per causa diversa.

Il criterio di liquidazione del danno da premorienza

Il consolidato indirizzo della Cassazione sul criterio da utilizzarsi per risarcire la premorienza per causa diversa dalla lesione primigenia, è chiaro: il decesso antecedente al risarcimento del danno, facendo venir meno la variabile della durata della vita residua, rende improprio il ricorso alla liquidazione tabellare che tale incognita adotta.

Deve tenersi conto dell’effettiva sopravvivenza del danneggiato.

Proprio in ossequio a tale indirizzo nel 2018 l’Osservatorio di Milano proponeva in una nuova tabella il procedimento di quantificazione del “danno biologico intermittente”, in caso di decesso per causa diversa dalla lesione, fondato sull’idea che “il danno non è una funzione costante nel tempo, ma esso è ragionevolmente maggiore in prossimità dell’evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi (…). Nello specificosi ritiene che il pregiudizio sofferto nel primo e nel secondo anno abbiano una intensità maggiore rispetto a quello sofferto dal terzo anno in avanti, sicché i valori risarcitori relativi a quell’arco temporale devono essere più elevati”.

L’accettazione dell’invalidità da parte del danneggiato

In sostanza, si volle teorizzare il principio secondo il quale il prototipo del danneggiato sarebbe sempre dotato di una resilienza tale da garantirgli una progressiva ripresa e, dal terzo anno, una stoica e definitiva accettazione della propria condizione di grave invalidità.

Ma è veramente così, soprattutto nei casi di menomazioni gravi?  Il diretto contatto coi macrolesi ed il costante confronto con gli specialisti medico legali, induce a conclusioni di tutt’altra natura. È possibile, dunque, che gli ideatori di tale meccanismo non avessero altrettanto stretta contiguità con i “macrolesi”; in caso contrario, avrebbero debitamente considerato che il reale vissuto delle vittime è ben diverso da quello che ispira il metodo milanese, in special modo in caso di danni ingenti: il danno non decresce affatto nel tempo, tantomeno i patimenti ad esso correlati.

Il consolidamento delle lesioni gravi nel macroleso

Senza considerare che il consolidamento delle lesioni gravi avviene a distanza di anni dal “sinistro”, spesso a seguito di complessi iter terapeutici e reiterati interventi chirurgici; un simile calvario clinico rende difficoltoso individuare il momento dell’effettiva stabilizzazione e anch’esso mal si concilia con tale idea di sofferenza (fisica ed emotiva) decrescente a partire dal fatto, che legittimerebbe una progressiva riduzione del valore monetario giornaliero.

Criteri di risarcimento del macroleso a confronto

Anteriormente all’attuale orientamento della Cassazione, ovvero del calcolo del danno biologico permanente in funzione dell’effettiva sopravvivenza, quando il decesso sopraggiungeva per cause non ricollegabili all’evento primario, prima dell’effettiva liquidazione ma in epoca successiva alla “stabilizzazione dei postumi” (valutazione di pertinenza medico legale), si procedeva ad una quantificazione secondo criteri tabellari.  Dunque, ad un ventenne con lesioni valutate in una percentuale dell’80%, sopravvissuto 5 anni, veniva riconosciuto a titolo di invalidità permanente un importo di circa € 850.000,00, sul presupposto – per l’appunto – che prima dell’exitus il danno potesse ritenersi stabilizzato.

Adottando il criterio milanese del danno da premorienza, agli eredi del medesimo danneggiato viene oggi riconosciuta, invece,  una liquidazione pari ad € 130.000,00.

Di fatto, se formalmente conforme, nell’applicazione pratica il metodo milanese ha gravemente compromesso tale posta risarcitoria. E lo ha fatto sulla base dell’indimostrata teoria, cui abbiamo fatto cenno, secondo la quale “il pregiudizio sofferto nel primo e nel secondo anno abbiano una intensità maggiore rispetto a quello sofferto dal terzo anno in avanti”.

La giurisprudenza contraria all’orientamento milanese

Nonostante il perdurante successo del metodo milanese presso le corti di merito, da tale impostazione si discosta con decisione la giurisprudenza di legittimità.

La Cassazione Civile vi ha preso inequivocabilmente le distanze, da ultimo con l’ordinanza n. 41933 del 29 dicembre 2021, secondo la quale non è condivisibile supporre che “il danno è ragionevolmente maggiore in prossimità dell’evento per poi decrescere progressivamente fino a stabilizzarsi”.

Tale assunto è definito “in contrasto con la logica, il diritto e la medicina legale”:  sul piano logico, poiché non «ha senso ipotizzare che un danno possa “decrescere” nello stesso momento in cui lo si definisce, appunto, “permanente” »; ma anche  sotto il profilo giuridico  non  essendo dimostrabile “l’idea che il danno permanente alla salute possa diminuire nel tempo non appare corretta. Tale pregiudizio consiste infatti in una forzata rinuncia ad una o più attività quotidiane (così, tra le altre, la nota ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513).

Il danno biologico permanente è, dunque, una rinuncia permanente”, tenuto conto  che  sul piano medicolegale «“permanenti” sono definiti quei postumi che residuano alla cessazione dello stato di malattia e sono perciò caratterizzati da una condizione di stabilità nel tempo»; né pare esistere un effettivo riscontro empirico, in medicina legale, di questa “nocicezione decrescente” (nocicezione = Percezione del dolore, n.d.r.).

Gli effetti sulla gestione stragiudiziale delle macrolesioni

L’imparagonabile risultato monetario cui si perviene ove il danno permanente sia liquidato al danneggiato ancora in vita, rispetto a quanto riconosciuto dopo il decesso secondo i criteri dell’Osservatorio, ha reso materialmente impossibile (o, quanto meno estremamente difficoltoso) definire i sinistri con lesioni gravi a carico di soggetti anziani, o in condizioni che facciano presagire un decesso prematuro.

Infatti, salvo che il danneggiato non sia disponibile ad accettare offerte gravemente defalcate, nessun obbligato al risarcimento ha interesse a definire casi di lesioni gravi a carico di soggetti a rischio di decesso, risultando finanziariamente assai più vantaggioso attenderne la morte, che continua ad essere la scelta di gran lunga preferibile anche ove l’exitus si verifichi a distanza di diversi anni dal sinistro, tanto per cause indipendenti, quanto riconducibili alla lesione originaria.

Non rappresentano un efficace deterrente l’applicazione in sentenza di interessi compensativi e rivalutazione (ininfluenti dal punto di vista economico), la possibile soccombenza giudiziale e relativa condanna alle spese (peraltro oggetto di frequente ed immotivata riduzione rispetto al Tariffario Forense), tantomeno la condanna ex art. 96 c.p.c., tanto rara da riscontrare, quanto simbolica nell’ammontare. Strategia dilatoria premiante, dunque, e “a rischio zero” per le compagnie di  assicurazione.

Danno da premorienza: quando è riconducibile alla lesione

E se il decesso anticipato è conseguenza del “sinistro”? In questo caso, addirittura, lo stato dell’arte è ancor meno chiaro e consolidato.

Le note esplicative delle Tabelle milanesi non chiariscono le ragioni che hanno indotto a limitare la propria proposta al caso di morte sopravvenuta per causa diversa, escludendo dall’ambito di applicazione dei nuovi parametri il decesso provocato dalla lesione originaria.

Se è innegabile che le fattispecie sono giuridicamente e fattualmente diverse, lo è altrettanto che trattasi in entrambi i casi di lesione del diritto alla salute/vita; l’operatore (Avvocato, Magistrato, liquidatore che sia), in entrambe le evenienze, si trova innanzi alla medesima necessità: attribuire un valore monetario ai giorni di vita, a prescindere dalle ragioni del decesso e dal nomen juris che si voglia assegnare alla sopravvivenza del danneggiato.

Si consideri, inoltre, come ben noto agli specialisti in medicina legale, che l’individuazione della sussistenza di un nesso causale tra morte ed evento lesivo originario non è sempre così oggettivamente determinabile. Si tratta, infatti, di valutazioni medico-legali che spesso offrono ben poche sicurezze, per limiti oggettivi loro propri (si pensi all’ambito oncologico) e per la relazione concausale che le patologie preesistenti/coesistenti/concorrenti possono avere con la lesione primaria.

Tutte considerazioni che parrebbero consigliare un trattamento uniforme delle due fattispecie (morte correlata o non), diverse dal punto di vista fenomenologico, ma sovrapponibili sotto il profilo del diritto compromesso (alla salute/vita) e delle necessità risarcitorie cui danno origine. Ma, come vedremo nel prosieguo, così non è.

Pareva che anche nel caso di morte correlata all’evento primario la Cassazione avesse definitivamente adottato il principio secondo il quale la liquidazione dovesse eseguirsi in funzione dell’effettiva sopravvivenza, rientrando il danno biologico terminale nell’alveo del danno da inabilità temporanea, considerato nel massimo della sua entità e intensità. Il  giudice  deve considerare che, sebbene transitoria, tale lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte, con la conseguenza che il valore monetario di ogni giorno di sopravvivenza debba essere imparagonabilmente superiore a quello della I.T.T. (€ 96,00 pro die).

Non certo il metodo utilizzato in una recente sentenza del Tribunale di Milano (n.10653/2021), in cui il giudice – sostanzialmente equiparando la condizione di chi versa in stato vegetativo a quella di un ricovero ospedaliero per la riduzione di una frattura ossea – ha moltiplicato i giorni di sopravvivenza di un paziente in coma (872) per € 99,00 al giorno (l’importo minimo previsto dalle Tabelle di Milano per invalidità temporanea assoluta), per una liquidazione complessiva di € 86.000,00.

La sentenza 32916/22 della Cassazione

Ma siccome nulla è mai come sembra e tutto evolve (tranne la sofferenza dei danneggiati), inaspettata quanto dirompente è giunta a novembre 2022 l’ordinanza n. 32916 con cui la Cassazione Civile sovverte venti anni della propria stessa giurisprudenza, tornando ad affermare che: “il principio secondo cui l’ammontare del danno biologico spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non già a quella probabile, in quanto la durata della vita futura in tal caso non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica ma è un dato noto, si applica solo nel caso in cui la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, e non anche allorquando come nella specie la morte sia stata viceversa direttamente cagionata dall’illecito, essendo la persona deceduta proprio in conseguenza della patologia contratta all’esito della subita trasfusione con sangue infetto, e non già per cause da essa indipendenti. Trova in tal caso infatti applicazione il principio affermato da questa Corte in base al quale la menomazione non reversibile dell’integrità della persona (idonea, cioè, ad incidere stabilmente e continuativamente sull’esplicazione della personalità lungo il presumibile arco della vita futura del soggetto che la patisce) presuppone che la persona sopravviva almeno  temporaneamente al fatto lesivo e, presentandosi con i connotati del danno permanente, va risarcita con le corrispondenti tecniche di valutazione probabilistica”.

Dunque, al 16/12/22, se il decesso (correlato al sinistro) avviene prima della liquidazione, ma dopo la stabilizzazione dei postumi, il risarcimento andrà calcolato secondo gli usuali criteri tabellari in tema di I.P. ed I.T. che postulano il consolidamento delle lesioni.

Considerazioni riassuntive

Un vero ginepraio, quello della premorienza, dal quale pare davvero complesso districarsi. In un simile anarchico contesto, in attesa che pervengano indicazioni chiare, univoche e, finalmente, stabili, il consiglio non può che essere quello di evitare accuratamente di rimanere vittime di lesioni gravi.

La speranza è quella di essere risarciti in tempi congrui, prima del decesso. Anche perchè come negare che l’ingiustificato ritardo nella liquidazione, atteso che  esso stesso concorre al determinarsi di un exitus anticipato?

In primis, infatti, la carenza di disponibilità economiche priva i danneggiati (cui assai spesso è venuta a mancare anche ogni fonte reddituale) dei mezzi necessari ad assicurarsi un’assistenza terapeutica adeguata alle proprie necessità, così che il quadro clinico continua irreparabilmente ad aggravarsi.

Secondariamente, ed anche in questo caso si tratta di esperienza frutto di osservazione, la condotta dilatoria dei responsabili determina anche gravi ripercussioni piscologiche nella vittima; se, inizialmente, è possibile che i danneggiati reagiscano in modo combattivo a tali speculazioni, col passare degli anni tutti finiscono puntualmente per abbattersi, prendendo coscienza che – con tutta probabilità – non sopravviveranno a sufficienza per vedersi riparati del torto subito: per questi soggetti la morte finisce per essere percepita ed attesa come una liberazione dal calvario della vita.

D’altro canto, a conferma del valore anche simbolico ed in certo senso “terapeutico” della liquidazione del danno, proprio la Suprema Corte ha più volte sottolineato la natura (anche) “consolatoria” del risarcimento, idoneo e finalizzato ad alleviare il patimento fisico ed emotivo del danneggiato.