Incidenti mortali, il risarcimento del danno agli eredi
Una recente sentenza della Cassazione boccia le tabelle del Tribunale di Milano. La sofferenza può provarsi presuntivamente.
La Cassazione con sentenza n. 10579/2021, ha chiarito che al fine di garantire, non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti.
La Tabella di liquidazione del danno da morte deve prevedere, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza.
Nonché l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale Tabella.
Per affrontare le problematiche irrisolte, in tema di danno da perdita parentale, non si può prescindere dall’affrontare le seguenti questioni:
- 1) a chi spetta tale posta di danno, ovvero a quale tipologia di congiunti della vittima (se in altre parole anche gli zii ed i cugini)
- 2) quando e a che condizione spetta il risarcimento del danno, ovvero se occorra fornire sempre una prova specifica o, se in taluni casi, il risarcimento possa avvenire “in automatico” (si profilano questioni di legittimità costituzionale per violazione degli 2, 3, 32);
- 3) in che misura il congiunto della vittima deve essere risarcito se in altre parole debba applicarsi il principio sopra richiamato dalla Cassazione, o si debba tener conto delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano.
Cosa è il danno da perdita parentale?
Il danno da perdita parentale è quel danno non patrimoniale iure proprio del congiunto della vittima che consiste nello sconvolgimento dell’esistenza causato dalla morte del proprio caro che consiste nel cambiamento dello stile di vita.
Ciò a causa del “…vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti” come richiamato dalla Cassazione con la sentenza n. 10107/11.
Quando gli eredi delle vittime della strada hanno diritto al risarcimento del danno?
E singolare, tuttavia, pensare che possa (debba) restare radicalmente esclusa la configurabilità di tale danno e, dunque, il relativo ristoro quando dall’evento conseguano “meri disagi, fastidi, disappunti, ansie” (Cass.16992/15;Cass.2228/12; Cass.10527/11).
Non potendo considerarsi esistente “in re ipsa”, ossia per il solo fatto dell’esistenza in sé del vincolo parentale, ma richiedendo “l’allegazione (e la verificazione) precisa e circostanziata dello sconvolgimento di vita patito e delle sue specifiche e concrete estrinsecazioni, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico” (Cass. 22585/13; Cass. 16255/12; Cass.12273/11).
E’ quella che qualcuno ha definito la lugubre teoria del danno conseguenza, che crea non pochi problemi in ordine alla disparità di trattamento su quella che rappresenta certamente la questione più importante della nostra esistenza: la vita umana; nonché l’unico accadimento a cui non è possibile porre rimedio: la morte.
La domanda è: davvero la morte di un figlio in un incidente stradale, di una sorella, di una moglie, di un marito, di un genitore può tradursi in un mero disagio od ansia, come le ripetute telefonate indesiderate di un operatore telefonico, o di uno stalker e, dunque, non trovare tutela, ai fini riparatori, in un ordinamento giuridico che voglia essere garantista?
Questioni di legittimità costituzionale relativamente la prova della sofferenza
La questione si pone sotto il profilo della legittimità costituzionale relativamente la prova della sofferenza di quello che è un fatto che si discosta dal sentire sociale: ovvero il dolore e vuoto incolmabile per l’uccisione di un proprio familiare.
La circostanza per cui “la liquidazione del danno non patrimoniale subìto dai congiunti in conseguenza dell’uccisione di un familiare non integra un danno in re ipsa ma deve essere provato in concreto dal danneggiato e la liquidazione deve avvenire in base a valutazione equitativa” secondo il principio enunciato dalla sentenza 11200/19 dalla Cassazione integra violazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione.
Nel secondo giudizio di riassunzione presso la Corte di Appello di Roma (RG 5204/19), nel quale si è chiesto ai fratelli di restituire quanto percepito a titolo di danno parentale poiché non avrebbero provato il legame affettivo (l’evento si è verificato nel 1997) è stata sollevata pregiudiziale per eccesso di potere legislativo e vizio di legittimità costituzionale con riferimento agli articoli 2043 e 2059 del codice civile.
L’eccezione di legittimità costituzionale è relativa alla parte in cui afferma che: “ la mera relazione di consanguineità non è da sola sufficiente ad integrare il danno risarcibile, gravando sui congiunti l’onere di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti e di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto”.
Negare che l’uccisione di un proprio familiare costituisca violazione dei diritti, e dunque, dei danni, perlomeno non patrimoniali, dei congiunti superstiti è nozione contraria ai principi basilari del sentire sociale e del diritto che è chiamato a tutelare tali beni supremi: la salute, la piena dignità sociale e l’uguaglianza sostanziale dell’individuo di fronte alla legge.
Così come anche non riconoscere che il dolore possa essere provato e manifestato in maniera differente e soggetto a valutazione equitativa da parte di organi giudicanti differenti e con propri distinti convincimenti.
Evento e conseguenza si concretano nel danno
D’altronde il caos generato sui danni non patrimoniali da uccisione di un congiunto, con l’elaborazione della teoria del “danno conseguenza” a scapito del “danno evento” non tengono conto dell’unica considerazione meritevole di tutela e cioè che: la vita e la salute sono beni preziosi ed irrinunciabili costituzionalmente protetti e garantiti e che l’evento e la conseguenza si identificano nel danno stesso, non potendo avere distinta collocazione quali espressioni racchiuse nel dettame dell’articolo 2059 del nostro codice civile.
Negare che l’uccisione di un figlio non abbia ripercussioni nella vita e sulla salute dei genitori, che la morte di un fratello non sconvolga l’esistenza dei familiari superstiti è principio che contravviene al sentire sociale e a quelle nozioni comuni proprie di uno Stato che voglia definirsi garantista e di diritto.
Per tale ragione l’assunto enunciato dalla sentenza 11200/19 deve necessariamente costituire una eccezione, con relativa inversione dell’onere della prova a carico di chi voglia fornire tale dimostrazione, ovvero dimostrare la mancanza di affetti o di un legame spirituale, in un rapporto contro natura, tali che possano escludere rapporti ed affetti familiari ai fini risarcitori.
Il sentimento, il dolore non possono essere oggetto di prova univoca, né costituire oggetto di accertamento medico legale
Il sentimento è qualcosa di interiore che non può essere provato e l’onere della prova dovrebbe incombere su chi intenda dimostrare un fatto che si discosti dal sentire umano e sociale, ovvero che si qualifichi come situazione eccezionale come il non provare dolore, o addirittura provare un sentimento di gioia e felicità, per l’uccisione di un proprio familiare e non rappresenti la regola: sofferenza, dolore, vuoto incolmabile, sconforto, perdita della voglia di vivere per l’uccisione del proprio caro.
Diversamente il dolore per la perdita di un familiare come dovrebbe essere provato?
Con una serie di certificati medici che certifichino: “Tizio soffre per la morte del fratello, non esce più di casa e la sera non dorme. Si certifica che è affetto da un danno non sanabile di grave entità rientrante nello scaglione massimo di personalizzazione del danno secondo quanto affermato dalle Tabelle del Tribunale di Milano”?
Tale situazione al limite della dignità umana e del ridicolo, se non già oltre, crea disparità sociale, poiché in fatto di sentimenti non viviamo tutti e manifestando l’affettività in egual modo.
Piuttosto la prova dovrebbe essere fornita, come prova contraria, da chi presume una situazione di fatto che si discosta da quella che è la normalità: ovvero il sentimento di amore spontaneo e l’affetto tra consanguinei.
Richiamando l’articolo 32 della Costituzione, la perdita di un familiare rappresenta il più grande sconvolgimento che possa capitare nella vita di un essere umano, ponendo spesso fine alla voglia di vivere, una mancanza ed un dolore non sanabile nel tempo.
Una situazione che non si augura a nessuno, non rappresentando l’assenza di convivenza nel mondo in cui viviamo e con le tecnologie a disposizione, un ostacolo alla pienezza del rapporto affettivo tra consanguinei, tant’è vero che il giudice può ridurre (può, non deve) l’importo riconosciuto a titolo di danno da perdita parentale fino alla metà.
Avvocato Gianluca Sposato
Presidente ADISM – Associazione Difesa Infortunati
Gruppo Danno alla Persona – Osservatorio sulla Giustizia del Tribunale di Roma